L’uomo in casa diventa assassino
una donna uccisa ogni due giorni
Quarantasei donne uccise dall’inizio dell’anno. Vittime dell’uomo che avevano accanto. Una strage silenziosa. La legge non basta: serve una nuova cultura
PRENDIAMO una frase così: Gli uomini uccidono le donne. È una generalizzazione spaventosa: la stragrande maggioranza degli uomini non uccidono le donne. Eppure a una frase così succede di reagire con assai minor indignazione e minor sorpresa di quanto la statistica consentirebbe. Non dico delle donne, che sanno bene che cosa vuol dire la frase.
Ma gli uomini, anche se la statistica dice che in Italia, non so, uno su 400 mila ammazza una donna in un anno, ammetteranno di sentire confusamente come mai uomini ammazzano donne.
L’uomo è cacciatore, si dice: il cacciatore gode di scovare la preda, inseguirla, braccarla, catturarla – e farla finita. Al centro del millenario addestramento dell’uomo maschio sta il desiderio, e la certezza del diritto naturale, di possedere la donna. E’ una metà della cosa: prendi la donna, la chiudi a chiave, la usi, la fai figliare e lustrare stivali, la bastoni ogni tanto, perché non si distragga dall’obbedienza, come fai con gli altri animali addomesticati. L’altra metà della cosa sta nella sensazione che la “tua” donna ti sfugga, anche quando l’hai riempita di botte e di moine, che il diritto di possederla è eluso da un’impossibilità. Non c’è carceriere che possa voltare le spalle tranquillamente al suo prigioniero. Non c’è prigioniero più irriducibile della donna.
L’uomo avverte con offesa, paura, vergogna questo scacco indomabile, e al suo fondo una propria inferiorità sessuale, un piacere pallido rispetto a quello che immagina sconfinato e astratto della donna – la sua capacità di puttana – e, quando si persuada di averla perduta e di non poter più vivere senza di lei, la uccide.
Lui, mediamente, vive: a volte tenta il suicidio, per lo più lo manca. Dice: “Sono incapace di intendere e di volere, perciò l’ho ammazzata”. L’altroieri le diceva: “Sono pazzo d’amore per te”. Voleva dire: “Sono incapace d’intendere e di volere, perciò ti amo”. Vivrà, compiangendosi, nel ricordo di lei, ormai soltanto sua – e comunque di nessun altro.
Ho scritto questa orrenda cosa: non perché non veda che è grossolanamente orrenda, ma perché penso che si avvicini alla verità. E’ una di quelle che si dicono male con le parole, dunque si preferirà fare un vuoto – un raptus, un’uscita da sé di cui non resterà memoria – e puntare sulle attenuanti generiche. Specifiche, fino a ieri, quando ammazzare una donna, specialmente la “propria” donna, era poco meno di un atto onorevole. La disparità, in questo campo, è senza uguali. Di fatto, perché le donne che ammazzano il “loro” uomo sono così rare da far leggere due volte la notizia, per controllare che non sia un benedetto errore del titolista – trafiletti, del resto. E di diritto e perfino di lessico, perché la parola era una sola, finora, a designare l’ammazzamento coniugale, uxoricidio, l’uccisione della moglie.
Il nuovo conio di “femminicidio” non è un puntiglio rivendicativo, è l’adeguamento stentato della lingua e della legge a una stortura di millenni. A meno che non fosse esaltata, che è l’altra faccia dell’avvento dell’amore romantico, gran rivoluzione in cui, nella nostra parte di mondo, si mescolarono la considerazione arcaica della donna forte e ribelle e infine domata in Grecia, e la nuova tenerezza che volle risarcirne l’inferiorità nel cristianesimo. Strada facendo, l’amore cavalleresco si conquistò uno spazio formidabile, e la donna dell’ideale non poté toccarsi nemmeno con un fiore – quanto alla reale, aveva il suo daffare, e non l’ha mai smesso: bella storia, grandiosamente rovesciata in amori così mirabili da indurre l’uomo ad ammazzarla, l’amata, e diventare così un eroe romantico, o un grande delinquente espressionista, o almeno un poveretto da compatire, per aver tanto sovrumanamente amato.
L’uomo che uccide la “sua” donna compie il più alto sacrificio di sé, in tutta una sublime tradizione artistica e letteraria, più che se ammazzasse sé per amore. E solo oggi, e faticosamente, ci si divincola da questo inaudito retaggio di ammirazione e commiserazione per l’uomo che uccide per amore, e lo si vede nella sua miserabile piccineria. E gli si vede dietro la moltitudine di ometti “tranquilli”, “perbene” – sono sempre questi, all’indomani, gli aggettivi dei vicini – che pestano con regolarità mogli e fidanzate e amanti e prostitute e figlie, le tormentano, le insultano e ricattano e spaventano e violentano. Panni sporchi di famiglia. Pressoché tutti gli omicidi che ho incontrato in galera – dov’ero loro collega – avevano ammazzato donne: la “loro”, o prostitute, dunque di nessuno, dunque di tutti. Vi passa la voglia di simpatizzare per Otello e Moosbrugger, per la Sonata a Kreutzer o per l’Assassino speranza delle donne.
Le statistiche oscillano: viene ammazzata una donna, in Italia, ogni due giorni, ogni tre, secondo le più ottimistiche. Se le donne non fossero il genere umano, la parte decisiva del genere umano, e venissero guardate per un momento come un’etnia, o un gruppo religioso, o una preferenza sessuale, non se ne potrebbe spiegare l’inerzia di fronte alla persecuzione, la rinuncia a un’autodifesa militante. Questo varrebbe fin dal genocidio delle bambine prima e dopo la nascita in tanta parte del mondo, che è sì altra cosa ma strettissimamente legata. Quel titolo, Uomini che odiano le donne, è diventato proverbiale scendendo da un nord civile e favoloso come la Svezia, una tremenda rivelazione. L’Italia, come le succede, si batte per il record, spinta dalla rapidità febbricitante dei suoi cambiamenti, dal ritardo alla rivalsa, e oggi le deplorazioni internazionali contro il femminicidio ci mettono assieme al Messico di Ciudad Juarez.
Oggi si parla di questo, ci si informa. E’ molto importante. Sono due gli strumenti decisivi per affrontare l’assassinio delle donne (e gli stupri, le persecuzioni, le botte, le minacce e le vite di paura): la polizia – e le leggi – e la cultura. La polizia femminile è il più significativo progresso del nostro Stato (e dell’Afghanistan). I due strumenti non sono, come si pensa, agli antipodi, una che arriva dopo il fatto, l’altra che lo previene da molto lontano. Vanno assieme, per prevenire da vicino e da lontano, e per sanzionare, materialmente e moralmente. Escono libri – l’ultimo che ho visto è Il silenzio degli uomini, di Iaia Caputo, Feltrinelli. Joanna Bourke, Stupro. Storia della violenza sessuale (Laterza), sciorina un repertorio impressionante di fantasie maschili passate per scienza e legge. La Rai ha programmi nuovi ed efficaci. Su Rai 3 “Amore criminale”, ora condotto da Luisa Ranieri, ha raccontato decine di storie di donne uccise, storie di persone altrimenti gelate in un numero statistico, ognuna a suo modo terribile.
Da oggi Rai 1 trasmette quattro film contro le violenze sulle donne, di Liliana Cavani, Margarethe von Trotta e Marco Pontecorvo. Nel web sono ormai numerosi i siti che aggiornano fedelmente e discutono le notizie sulle donne assassinate, rinvenute, quando ci arrivano, dentro le cronache locali. Ci sono gruppi di uomini che hanno deciso di parlare di sé, come l’associazione “Maschile plurale”. Torno all’inizio. Noi uomini, se appena siamo capaci di ricordarci del modo in cui siamo stati iniziati, e non ci dichiariamo esonerati, sappiamo che cos’è la voglia frustrata o vendicativa o compiaciuta di malmenare e vessare le donne e la loro libertà. Lo sappiamo, come Endrigo quando passava da via Broletto, al numero 34, dove dorme l’amore mio. Non si sveglierà. Proprio sotto il cuore c’è un forellino rosso, rosso come un fiore.
http://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/27/news/l_uomo_in_casa_diventa_assassino_una_donna_uccisa_ogni_due_giorni-32260263/#commentatutti